Catechesi – GARANZIA DI IMMORTALITA’

“Meglio essere senza figli e avere la virtù,
poiché nel ricordo di questa c’è immortalità,
per il fatto che è riconosciuta da Dio e dagli uomini.” (Sapienza 4, 1)

  • Il Signore ci insegna sempre a guardare le cose dal Suo punto di vista, che ovviamente privilegia lo spirito e non certo la carne. Con carne non si intende un disprezzo per il corpo, tempio santo di Dio, ma una mentalità prettamente umana, di cui è infarcito il mondo.
  • Per il mondo, il riscontro concreto delle cose è la priorità. Si dà valore all’apparenza, all’avere, a tutto ciò che è visibile e tangibile. Poco conta quello che è invisibile agli occhi, che però ha grande importanza presso Dio.
  • Quando la Parola dice che è meglio essere senza figli ma avere la virtù, sta dicendo una cosa molto “strana” soprattutto per la cultura ebraica, dove la prole era considerata un segno del favore divino. Chi non aveva figli era visto come mancante, o addirittura giudicato maledetto o peccatore. Insomma, doveva avere qualche problema.
  • Nella cultura odierna ancora questo paragone ci scuote, perché i figli sono considerati una benedizione. E lo sono, certo. Ma Dio vuole farci guardare oltre…
  • Per qualcuno il dono più grande può non essere considerato avere un figlio ma magari una posizione, un certo lavoro… o qualsiasi segno nella carne che attesti l’essere riuscito nella vita.
  • Perché è questo il punto. In cosa o in chi traiamo la nostra sicurezza e la nostra soddisfazione?
  • Certo un figlio è l’emblema di tutto questo, perché rappresenta la vita che si rinnova, le speranze di qualcosa di migliore…
  • Il problema però è che carichiamo queste cose (o persone) di aspettative e finiamo per farne idoli. Pensiamo che con esse, tramite esse, ci possa essere il riscatto della nostra vita.
  • Ma questo pensiero è limitatamente umano e rattrista Dio. Primo, perché siamo già stati riscattati, comprati a caro prezzo da Gesù. Secondo, perché in nessuno possiamo trovare la pienezza che il nostro cuore brama, se non in Dio.
  • Pensando ai figli, quanti di noi hanno detto loro “voglio che faccia meglio di me, che abbia più opportunità di me, che diventi quello che io non sono mai potuto diventare”.
  • Questo discorso è pieno di amarezza e non c’è vero amore in esso. Perché intanto non tiene conto della libertà della persona che si ha davanti, che ha tutto il diritto di fare le proprie scelte e di seguire il proprio percorso, unico per ciascuno.
  • E poi perché è del tutto privo di speranza, la virtù teologale che ci consente di avere un corretto rapporto nei confronti di noi stessi. Come possiamo amare il prossimo se non sappiamo amare noi stessi?
  • Infatti il vero successo non si basa sui traguardi del mondo, ma su quanto ci si è fatti piccoli affinché Dio vivesse in noi. IN NOI! Se anche la maggior parte della nostra vita è stata un disastro, se anche i nostri fallimenti sono enormi, Dio non perde mai la speranza su di noi.
  • Quindi non ha senso buttare sui figli o sui posteri o su chiunque altro le nostre aspettative. Bisogna solo confidare in Dio e ponderare bene le nostre scelte.
  • La virtù (aretè) di cui parla il versetto non è specificata. Aretè vuol dire anche valore, in senso positivo qui. E chi è un uomo/donna di valore?
  • È qualcuno che ha camminato nella verità, anche a costo della propria vita. Qualcuno che non è sceso a compromessi, che non si è macchiato di ingiustizia. E’ un vero combattente, insomma, ma nello spirito.
  • E solo questo è fonte di immortalità (athanasia)!
  • L’immortalità non è il non morire mai nella carne, ma è avere la vita eterna che la tomba non può tenere sigillata!
  • Il versetto specifica inoltre che nel ricordo di questa virtù c’è immortalità, infatti nessuno si ricorda di una persona egoista, superficiale, mediocre; ma tutti si ricordano di qualcuno che è rimasto fedele e retto fino alla fine.
  • La garanzia di immortalità della virtù non è solo data dal fatto che non muore mai nel ricordo degli uomini, ma anche dal fatto che essa è riconosciuta (ghinosketai) da Dio stesso!
  • Noi diamo al verbo “riconoscere” un senso di premio, riconoscimento, merito. Ma il verbo ghinosko è molto più profondo. Perché esso vuol dire conoscere profondamente, anche intimamente. E il suo suffisso “sko” indica un’azione lenta e graduale nel tempo.
  • Quindi chi possiede o pratica la virtù è conosciuto personalmente e intimamente da Dio! Questo presuppone una relazione. Del resto non può essere altrimenti. Chi agisce rettamente vuol dire che è intimamente connesso con Dio che risiede nel suo cuore!