Catechesi – MARANATHA’, OVVERO L’ANELLO

“Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema. Maranà tha: vieni, o Signore!” (1 Corinti 16, 22)

  • Incisivo e deciso come sempre, Paolo scrive un’ardita ma importante frase: «chi non ama il Signore sia anàtema». Per capire il senso delle sue parole, dobbiamo rivolgerci al greco.
  • Intanto, il verbo amare. Sorprendentemente, qui non è usato il verbo agapaoo, che indica l’amore oblativo, ovvero quella capacità di amare che viene solo dal Signore, perché priva di riserve e di interessi personali. Bensì è usato il verbo phileoo. Phileoo indica la capacità di amore tipicamente umana. È confluito in italiano in parole come ad esempio cinofilia, filatelia, filantropia ecc. Racchiude in sé l’interesse per la cosa o la persona amata, ma con un innegabile ritorno personale, in genere affettivo. Filìa è traducibile anche come amicizia o benevolenza, un legame in cui c’è un interesse comune che unisce.
  • Quindi Paolo sta dicendo: ciò che conta è avere caro il Signore e tutto ciò che Lo riguarda. Si può avere per Lui un affetto solo umano, ma è sufficiente per non essere chiamati anàtema! L’agape ci viene donato da Dio per amare secondo la Sua volontà; la filìa è l’interesse per le cose di Dio che ha origine in un cuore umano ben disposto verso il Signore, e tanto basta.
  • Anàtema è un termine molto forte che vuol dire maledizione, proscrizione, bando dalla comunità. In questo contesto rappresenta dunque colui che è escluso dai santi, cioè i credenti in Cristo. Anatema è chi è separato da Gesù (cfr Rm 9,3). Paolo usa questa parola poche volte; ad esempio nella lettera ai Galati, in cui proclama in modo deciso che se qualcuno annuncia un vangelo diverso da quello ricevuto, deve essere considerato anatema, fosse anche un’apparizione celeste o Paolo stesso che ritratta!
  • Ma cosa c’entra questo con l’amore o l’interesse per il Signore? Perché un appellativo tanto forte? Per capirlo, dobbiamo tenere presente anche il finale del versetto: «maranathà, vieni Signore!». La traduzione di questa invocazione aramaica è stata aggiunta nel testo per renderlo più chiaro. Sono le parole che concludono l’apocalisse (22,20), il culmine della rivelazione di Dio prima del Suo ritorno. Maranathà è l’appellativo accorato della chiesa che attende il ritorno dello Sposo e che dice, insieme allo Spirito: Vieni!
  • È evidente l’attesa, il desiderio di vedere lo Sposo. Ma… è davvero così per noi? O ci stiamo addormentando nel frattempo? Il termine greco usato in apocalisse per sposa è nymfe, ovvero promessa sposa, sposa novella. Non è scritto gynè/gametè ovvero moglie. Gesù sta tornando per una chiesa che ha la stessa trepidazione di una fresca sposina!
  • Si può essere anziane anagraficamente e tuttavia essere come sposine nel cuore. Non basta essere una moglie per essere una sposa; viceversa, se si è una sposa si è sicuramente anche moglie. Per capire ciò, pensiamo ad una situazione della vita reale.
  • C’è una moglie che desidera fortemente stare con suo marito, ma sa che lui deve andare fuori casa per provvedere alla famiglia. Lo saluta amorevolmente quando parte la mattina, anche se il suo sorriso dice: «torna presto!». Le ore senza il marito non vengono trascorse nell’inattività: il tempo passerà presto ed è bello che lui torni trovando un ambiente ordinato, pulito e accogliente. La casa e i figli non sono accessori estranei alla coppia, ma doni da custodire anche a nome del marito. Certo, possono diventare un banco di prova per lei; ma nessuno le chiede la perfetta performance, solo amore e cura nel fare tutto. Se c’è un problema grosso, la moglie sa che può telefonare al marito per avere consiglio. Il tempo non trascorre nella disperazione, ma nella certezza che lui tornerà e saranno di nuovo insieme! La moglie si occupa di casa, figli e incombenze varie, ma pensa anche a se stessa prima che torni il marito. Non in modo egoistico, ma in relazione a lui: si sistema e si rimette in ordine. La moglie non conosce l’ora esatta dell’arrivo del marito, ma riconosce il tempo in cui egli si avvicina, perciò prepara tutto affinché sia pronto. Così, se lui dovesse tardare un po’ e lei si appisolasse, basterebbero pochi secondi per riprendere in mano la situazione ed aprirgli, finalmente, la porta. La gioia nel rivederlo cancella in un istante ogni fatica della giornata!
  • Questa scena si ripete ogni giorno in molte case, nel mondo. La donna descritta è moglie legalmente, ma è sposa nel cuore! Non è interessata ai diritti o doveri del contratto, ma pensa solo all’amore della sua vita!
  • Putroppo, ci sono molte mogli che non sono più spose. Forse lo sono state agli inizi della vita insieme, forse cominciano le giornate motivate come spose per poi finire nella trascuratezza e nell’indifferenza. Sta di fatto che le loro case sono vuote, tristi, disordinate; i loro mariti non trovano nessuno ad aspettarli. Non c’è amore, solo legalismo. Stupisce dunque che Paolo dica che chi non ama il Signore sia anatema?
  • Lo Sposo non è un ispettore che torna per verificare che i compiti siano stati eseguiti alla perfezione, ma un innamorato che rimane dispiaciuto se non trova una calda accoglienza e se vede bistrattate le cose che ha affidato alla sposa.
  • Ma cosa permette ad una sposa di rimanere tale, o ad una moglie di ritornare ad essere una sposa? Nella carne come nello Spirito, è il pensiero dello sposo. Chi è, cosa ha fatto e sta facendo per noi, cosa succederà al suo ritorno. Tutto ciò di cui lei si occupa sia fatto con la mente rivolta a Lui! Questo è il «segreto». Facendo un esempio pratico: stirare le camicie è un compito noioso e faticoso. Ma farlo pensando che il nostro sposo le indosserà e starà bene è gratificante! Lo stesso vale nello Spirito. «Ogni volta che avete fatto queste cose… l’avete fatto a me» (Cfr Mt 25).
  • La «parola» maranathà dovrebbe accompagnare i pensieri della sposa per tutto il tempo che lo Sposo non è lì con lei. Perché quest’espressione è così importante da aver trovato posto nella scrittura? Perché può avere un doppio e interessante significato.
  • Nei manoscritti viene indicata come un’unica parola, e questo ci fa pensare che ciò che conta è come si pronuncia, non come si scrive. Infatti pronunciare in aramaico maranathà, può voler dire due cose: Signore, vieni (marana thà). Oppure: il Signore è venuto (maran athà).
  • Entrambe le cose sono vere espressioni di fede! Gesù è già venuto nel mondo ed ha già compiuto l’espiazione dei peccati. Tutto è compiuto, come disse sulla croce. Questa verità si accetta solo per fede, così come l’altra, che auspica il ritorno di Gesù. Ma non è una vaga speranza umana, bensì una certezza basata sulle promesse di Cristo.
  • Maranathà è entrata nella scrittura perché… rappresenta l’anello nuziale della sposa di Gesù, cioè la fede! E’ un dono fatto dallo Sposo, lei non se l’è procurato da sola; ma è compito suo portarlo al dito e ricordarsi sempre di Lui. Dentro c’è incisa una data: è il giorno della morte in croce di Gesù, quando la nuova Eva è nata dal costato di Cristo. È stato un giorno importante, ma è solo l’inizio di una nuova vita! Guardare quell’anello, cioè pronunciare maranathà, significa dunque ricordarsi di ciò che è avvenuto nel giorno delle nozze con Cristo e delle promesse da Lui fatte. Tutti vedranno questo anello e sapranno che stiamo aspettando il nostro Sposo.